A Cosenza un nuovo centro della Comunità Regina Pacis per la cura e il recupero dalle dipendenze patologiche
«Ricordo che un giorno svenni e che quando mi ripresi non ricordavo più nulla. Cosa mi successe? Perché mi trovavo in quello stato? Non lo sapevo. Oggi so, però, che la dipendenza dall’alcol mi ha portato a perdere moglie, figli e lavoro. Sono rimasto completamente solo». Angelo Tursi, 53 anni, di San Lorenzo del Vallo, in provincia di Cosenza, da cinque anni non beve più. S’è finalmente svegliato dall’incubo che ha stravolto la sua vita e, grazie al periodo di degenza in una delle Comunità terapeutiche Regina Pacis, si è rialzato. «All’epoca non ero neanche sicuro che un problema come il mio potesse essere curato — racconta Angelo —. Tramite un amico, mi recai al Sert della mia città e arrivai in comunità: da lì è cambiato tutto».
Dall’incontro col fondatore, don Dante Bruno, e coi professionisti della Regina Pacis, che attualmente conta tre centri residenziali maschili per la cura e il recupero dalle dipendenze patologiche e due case famiglia per donne in difficoltà, sempre nel cosentino, Angelo diventa effettivamente un altro. «In comunità ho conosciuto la fede — aggiunge — e non finirò mai di dire grazie a don Dante per avermi accolto. Lui è quel tipo di sacerdote in grado di entrare nei cuori delle persone in punta di piedi, le prende in braccio e le porta alla luce. Lo ha fatto anche con me, mi ha aiutato ad aiutare gli altri».
È proprio Angelo, riavvicinatosi a figli e nipotini e ormai divenuto operatore d’esperienza all’interno dei centri, a guidare il pullman della Regina Pacis che conduce da don Dante. Piove forte e il padre spirituale si trova nella cappella de La Città del Sole, la comunità polifunzionale, inaugurata lo scorso 15 giugno dopo diciotto anni di gestazione, che si aggiunge alle esistenti e sorge su uno dei punti più alti di Cosenza. Da colle Mussano, infatti, la vista, nonostante il temporale, è sorprendente: i tetti dei palazzi antichi si confondono con quelli più moderni, il pilone del ponte di Santiago Calatrava svetta sulla confluenza tra i fiumi Crati e Busento, custodi, secondo la leggenda, del tesoro del barbaro Alarico.
«Chi sono io?», ripete la domanda don Dante, mentre attraversa il giardino della neo oasi di carità che mette a disposizione 75 posti letto e dove sono pure presenti Giovanna Magliocco (responsabile area accoglienza) e Barbara Minniti (responsabile area terapeutica). «Io sono solo un uomo che vorrebbe dare gioia a Gesù Cristo — risponde —. Vorrei essere come un ponte, ecco, che porta i fratelli persi alla terra promessa». E sul ponte della rinascita, in 33 anni d’attività, gli ospiti delle comunità terapeutiche sono stati più di mille; circa cinquecento, invece, le donne e i bambini delle case famiglia.
«Le tre Comunità Regina Pacis sono situate rispettivamente a Spezzano Albanese, a Torano Castello e a San Benedetto Ullano, mentre le due case famiglia si trovano a Vadue di Carolei e a San Benedetto — precisa don Dante —. Oggi abbiamo 90 ospiti e, di Regina Pacis, che dal 1985 è un’associazione senza scopo di lucro, fanno parte 40 dipendenti specializzati nel prestare servizio alle fasce più deboli, afflitte da situazioni di disagio e, in particolare, dalle tossicodipendenze». Tutte donne sono, inoltre, le direttrici delle diverse strutture: Silvana Vita a Torano, Manuela Piacentini a Spezzano, Sabrina Caracciolo per la casa famiglia di San Benedetto Ullano, Cinzia Apa a Vadue, Cinzia Manduca a San Benedetto Ullano.
«Ritengo che non esista nessun uomo che non abbia mai avuto un incidente di percorso — spiega ancora don Dante —. La tempesta nella vita arriva. E quando arriva, allora che fai? Noi delle Comunità Regina Pacis vogliamo dare un aiuto con tutti gli strumenti idonei allo scopo, motivo per cui nei centri sono presenti psicologi, medici, assistenti sociali, volontari e altre figure professionali, ma pure con la preghiera. Finora — afferma — ci sono state storie finite male e, al contempo, tantissime altre in cui l’utente si è pentito dei danni fatti a se stesso e agli altri e ha scoperto la bellezza di essere utile».
Nella comunità di San Benedetto Ullano, tra i paesi italo-albanesi più vicini a Cosenza, ad esempio, il gusto delle cose semplici si scopre ogni giorno. Lo dimostra il quarantenne Francesco Giorgio Rocchetti che da 24 mesi è accolto dalla struttura e cura le due serre, di 800 e 900 metri quadrati l’una, limitrofe alla comunità. «In un solo anno, col progetto “Rinascita agricolando”, abbiamo piantato quindicimila piantine tra broccoli, pomodori e ortaggi vari», racconta orgoglioso. Tra qualche mese, con alle spalle un completo percorso terapeutico che lo ha portato persino a ottenere il patentino per guidare il trattore agricolo e a partecipare al corso sulla manipolazione degli alimenti, potrà andar via dalla comunità. «Oggi come oggi — continua Giorgio — penso al mio futuro e alla vita che ho imparato a valorizzare. Sono fiero di non aver mollato davanti alle piccole e grandi avversità».
Oltre alle serre, la comunità di San Benedetto Ullano è dotata di un frutteto, di un pollaio, di un’officina di falegnameria e persino di un forno a legna («il compito di stare al forno — scherzano i ragazzi — lo abbiamo affidato a un napoletano, di professione pizzaiolo); si tengono corsi di apicoltura, si può scegliere di ottenere il diploma o la licenza media. I ventotto uomini presenti, dai 26 ai 63 anni, calabresi e campani in maggior parte, dipendenti da sostanze stupefacenti, alcol, gioco d’azzardo e disturbi da comportamento alimentare o soggetti, in certi casi, a misure giudiziarie, si preparano alla vita che li aspetta fuori. Lo stesso Giorgio vuole mettere a frutto le competenze acquisite nei due anni in comunità. «Vorrei vivere — dice — in qualunque posto possa lavorare senza timore dei pregiudizi della gente».
Così ogni giorno trascorre all’insegna della gestione della casa, della preparazione dei pasti e della pizza più buona della Calabria, della divisione dei compiti, delle attività terapeutiche e della preghiera. Nel primo pomeriggio gli ospiti stanno chiacchierando sul grande patio della comunità immersa nel verde e nella pace assoluta. Alla richiesta di una foto di gruppo, c’è chi ironizza: «Noi sui giornali ci siamo già finiti!». Perché, sì, in comunità s’impara anche a prendere consapevolezza del passato. E ad andare oltre.
Sono cinque, invece, le donne, tra i 40 e i 60 anni, presenti nella sola casa famiglia di Vadue di Carolei. Soltanto una è straniera con nazionalità polacca. Qualcuna ha subito in passato violenze domestiche, altre hanno sofferto di dipendenza affettiva e vivono un disagio psicologico e sociale. Insieme a loro ci sono pure tre minori di tredici e undici anni che frequentano la locale scuola secondaria di primo grado e le attività sportive che più gli piacciono, dal calcio all’hip hop. Hanno, pertanto, imparato a convivere una insieme all’altra queste donne e, in particolare, a staccarsi da un passato asfissiante. Oggi, tra le pulizie di case, l’aiuto alle signore del territorio per guadagnarsi quel poco d’indipendenza economica e le faccende da svolgere in comunità hanno ripreso a respirare. Alla sera si riuniscono intorno al grande camino della struttura, guardano un film e, soprattutto, si concentrano sugli obiettivi che vogliono raggiungere nel prossimo futuro. Monica, ad esempio, ha 42 anni, ha vissuto a Lecco fino ai 23, dopodiché a Petilia Policastro, nel crotonese. Non prova vergogna nel raccontare la sua storia: «I miei primi due bambini sono stati adottati all’età di due anni e mezzo e un anno. Da quando me li hanno tolti non li ho più rivisti. Il resto della mia vita l’ho vissuto con la paura che potesse succedere anche coi due più piccoli che, invece, sono rimasti insieme a me. Grazie alla comunità abbiamo superato la dipendenza dall’alcol e quella da sostanze stupefacenti del mio compagno e lui, a sua volta accolto nell’altro centro di don Dante, è uscito da questo terribile vortice che ci stava inghiottendo. Ciò che spero è che si possa tornare veramente a essere una famiglia». Presto, infatti, Monica e i bambini si trasferiranno, in condizione di semiautonomia, negli appartamenti messi a disposizione da La Città del Sole dove incontreranno rispettivamente il compagno e il padre. Con l’accento lombardo nel Sud più a sud che esista, Monica spiega anche che in comunità ha assecondato la sua passione più grande, la sartoria, e rivela quello che è il suo sogno nel cassetto. «Ho seguito un corso di cucito, sono brava — dice — e mi auguro di poter trovare un lavoro in questo settore e, poi, spero anche che don Dante sposi me e il mio compagno e che insieme si vada in pellegrinaggio a Medjugorje, la fede ha aiutato entrambi».
Ma c’è un’altra donna che si aggira nelle comunità e nei centri di don Dante Bruno. Si tratta di suor Agnes, per tutti Agnese, che viaggia dalla Calabria alla Nigeria, e viceversa, per «aiutare i più bisognosi». «E io che la povertà l’ho toccata con mano nella mia Africa — afferma — so che cosa significhi realmente». Attraverso la Fondazione Spezza il Pane, emanazione dell’associazione Regina Pacis, non a caso, è impegnata nel progetto di adozioni a distanza. «In vent’anni abbiamo adottato circa cinquanta bambini in Nigeria — racconta —. Alcuni di loro hanno preso una laurea e adesso lavorano». Oltre all’idea di costruire, sempre in Nigeria, un ospedale e una scuola, la fondazione ha all’attivo progetti anche in India, in Perú e in Brasile. «In Perú, ad esempio — torna a dire don Dante —, è nata una comunità che accoglie bambine vittime di soprusi e orfane. Noi la sosteniamo come meglio possiamo e crediamo, anche in riferimento alle iniziative ancora non completate e a La Città del Sole dove si va avanti principalmente con donazioni, che la provvidenza di Dio completa sempre ciò che inizia».
Le storie di don Dante continuano a essere raccontate fino al tramonto. Sono tutte impresse nella sua memoria e in quella di chi è entrato a far parte della grande famiglia della Regina Pacis. A esse si aggiungeranno nuove narrazioni, seconde possibilità. E mentre Angelo ritorna alla guida del pullmino, risponde a un’ultima domanda. «Cosa insegnerò ai miei nipoti? Di certo a non giudicare. Spero che se incontrassero l’inadeguatezza di qualcuno, non rimarrebbero annebbiati dal pregiudizio». Intanto, su La Città del Sole, non piove più.
di Enrica Riera
Fonte: L’Osservatore Romano